Gli haitiani nei bateyes dominicani: «​Indesiderati ma necessari»

di 
Alessandro Rossi
Un'esistenza sospesa tra sfruttamento e marginalità: è la vita degli haitiani che si spostano nello Stato a loro più vicino, la Repubblica Dominicana. Lo racconta qui l'antropologo Zecca Castel
12 maggio 2025
«​Indesiderati, ma necessari». È l’espressione che l’antropologo Raúl Zecca Castel utilizza per descrivere la condizione degli haitiani in Repubblica Dominicana. Un’esistenza sospesa tra sfruttamento e marginalità. «Di fatto vivono come fantasmi. Non c’è un censimento ma si stima siano circa 500 bateyes in cui vivono 250 mila persone», spiega, richiamando il lavoro di Bridget Wooding, direttrice dell'osservatorio sulle migrazioni nel paese caraibico.
Dietro il boom economico della Repubblica Dominicana – 11 milioni di turisti nel 2024, più della popolazione residente – si estende una rete di comunità dimenticate. Strade sterrate che si perdono tra i campi di canna da zucchero conducono ai bateyes: insediamenti nati per ospitare i lavoratori stagionali, ma che si sono trasformati in prigioni a cielo aperto. «Molte di queste comunità ancora oggi non sono raggiunte dall'energia elettrica, da acqua corrente, sono prive di scuole e ospedali», racconta.
Nel suo ultimo lavoro, “Bateyes. Una realtà dominicana”, edito da Arcoiris, l’autore raccoglie anni di ricerche. «Sono una testimonianza visiva di quello che io ho potuto osservare: pessime condizioni abitative, corpi feriti a causa di incidenti sul lavoro, volti consumati». Un archivio di storie raccontano un’economia costruita sulla pelle degli ultimi. I principali bateyes si trovano lungo la frontiera a Barahona, a San Pedro de Macorís e a La Romana. «Quando c'è stata la crisi del mercato dello zucchero a livello internazionale negli anni '90, le piantagioni statali sono passate nelle mani di poche famiglie straniere», sottolinea.
Dai bateyes, solitamente, non si esce. Il primo libro dell'esperto si intitola “Come schiavi in libertà” (Arcoiris, 2015). Un titolo che racchiude la risposta di un bracciante sulla propria condizione di vita. «Non c'erano catene alle caviglie che lo trattenevano, non c'erano guardie armate che gli impedivano di scappare dalla piantagione. Ma i debiti e la mancanza di soldi impediscono di fatto di perseguire la propria volontà, costringendoli a restare lì, schiacciati da un debito strutturale che non riescono a saldare».Indesiderati, sì, ma necessari. «Negli ultimi anni uscire dal batey vuol dire anche esporsi alla deportazione, perché nei bateyes tendenzialmente non entrano gli agenti di immigrazione. Sanno che sono lavoratori indispensabili alle imprese e preferiscono non toccarli», aggiunge.
  Per le donne, l'emarginazione è doppia. Escluse dai lavori di raccolta della canna da zucchero, trovano impieghi temporanei e precari nella pulizia dei campi o nella semina. «Gli unici ad avere accesso a un reddito più o meno sicuro sono gli uomini. Le donne, non avendo la possibilità di essere autonome economicamente, sono costrette a legarsi a un uomo», esplicita. Diventano madri giovanissime e spesso vengono abbandonate, instaurando un ciclo di dipendenza senza fine.  
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Molti degli haitiani che oggi vivono nei bateyes sono fuggiti dalla crisi umanitaria che da anni devasta Haiti: un Paese segnato da instabilità politica, disastri naturali e povertà cronica. Secondo i dati riportati da Reuters, il numero degli sfollati interni ad Haiti è triplicato nel 2024, passando da 315.000 nel dicembre 2023 a oltre 1,04 milioni. Più della metà sono bambini, principali vittime della violenza crescente delle bande che hanno trasformato Port-au-Prince in un inferno urbano. Così, molti provano a emigrare nello stato più vicino, appunto la Repubblica Dominicana.
Ma oltre frontiera la retorica anti-haitiana si intensifica sempre di più. Nelle scorse settimane, il gruppo nazionalista Antigua Orden Dominicana ha organizzato una manifestazione violenta a Punta Cana, baraccopoli abitata prevalentemente da haitiani. I militari sono intervenuti demolendone alcune e alimentando il clima di tensione. Zecca Castel parla di una Repubblica Dominicana divisa. Da un lato, la propaganda politica che utilizza il capro espiatorio haitiano per distogliere l’attenzione dai problemi economici della nazione. Dall’altro, la vita reale, quella in cui haitiani e dominicani lavorano fianco a fianco nei cantieri, nei resort, nelle piantagioni: «Senza di loro, l'economia dominicana avrebbe grossi problemi». Nel frattempo, alla frontiera il governo dominicano innalza checkpoint e barriere per fermare i flussi migratori. «Ma – fa notare l'antropologo – quegli stessi checkpoint sono costruiti da muratori haitiani».

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