La voce di papa Francesco e noi: non “curiosi” ma comunità in ascolto
di
Davide Tizzo
La mancata diffusione di immagini del Papa è risuonata come un tradimento delle regole implicite del gioco, nonostante quello che le parole, attraverso i bollettini medici, comunicano ogni giorno

Viviamo nella società della trasparenza, che non è semplicemente una disponibilità alla sincerità, all’apertura, alla accountability, ma una forma di coercizione sistemica, di diritto-dovere che dà forma alla comunicazione pubblica. La trasparenza diventa una ideologia totalizzante e semplificatrice, che riduce tutto a immediata visibilità. Torna in mente l’esse est percipi del filosofo Berkeley, declinato alla ennesima potenza: esiste solo ciò che viene percepito.
Da una parte assistiamo all’auto-esposizione permanente di ciascuno, anche nelle dimensioni più intime dell’esistenza, attraverso i social media, secondo una dinamica che Bauman ha definito “estimità”. Se non siamo visibili non esistiamo. Prima di tutto per gli altri (la famosa sindrome Fomo, la paura di rimanere tagliati fuori). E poi anche per noi stessi: se nessuno ci guarda (o meglio, guarda la nostra immagine) sembriamo perdere il senso della nostra stessa esistenza.Si instaura una vera e propria tirannia della visibilità sociale che spinge le persone a condividere aspetti sempre più personali della loro vita, senza peraltro che questo si traduca in effettiva condivisione. Una sorta di “intimità fredda”, dove ci si vede senza mai incontrarsi davvero.
Il culto della condivisione diventa una imposizione sociale, che “capitalizza” la nostra trasparenza, dato che il bisogno di visibilità è indotto da un’architettura tecnologica ed economica che ha tutto l’interesse a trasformare ogni aspetto della vita in dati commerciabili. Viviamo dentro una grande “casa di vetro”, in uno stato di esposizione permanente.
Dall’altra parte, la società della trasparenza è anche la società della sorveglianza: i dati che volontariamente e gratuitamente consegniamo alle piattaforme ci rendono trasparenti e vulnerabili, perché molto più esposti a logiche estrattive che creano profili accuratissimi, dove il fine ultimo non è solo prevedere i comportamenti, ma modificarli, con spinte più o meno “gentili” (il cosiddetto nudging) e con strategie di persuasione sempre più mirate. La trasparenza, da garanzia di libertà, diventa condizione di manipolazione (soprattutto perché è a senso unico).
È in questo contesto che la mancata diffusione di immagini di Papa Francesco è risuonata come un tradimento delle regole implicite del gioco, nonostante quello che le parole, attraverso i bollettini medici, comunicavano ogni giorno. Perché anche se sappiamo che ormai l’immagine non testimonia più nulla (tutti abbiamo visto Papa Francesco col piumino bianco, generato dall’IA) nella società della trasparenza la esigiamo come prova di verità. Sapendo bene, peraltro, che non c’è più garanzia di corrispondenza a un referente reale.
Se dopo il 14 febbraio fossero circolate immagini del Papa ci sarebbe stato sicuramente chi avrebbe sostenuto che erano prodotte dall’intelligenza artificiale. Ci troviamo di fronte a un cortocircuito del regime di verità: come San Tommaso non crediamo se non vediamo, anche perché è quello che ci impone la società della trasparenza; eppure oggi, anche quando vediamo, sappiamo che l’immagine non garantisce più la realtà. Che fare allora per uscire dall’impasse, e anche per scavalcare complottismi e dietrologie? Papa Francesco non ha scelto l’occhio (l’immagine) ma l’orecchio (la voce). McLuhan scriveva che «la vista esclude, l’udito include», e il gesuita Walter Ong sosteneva che la parola parlata è un evento relazionale, un’esperienza viva che crea e rafforza legami. Il suono non sta fuori, come l’immagine, ma risuona dentro, è più intimo.
La voce debole e sofferente del Papa ha creato, ancora una volta, una “comunità in ascolto”, che ci ha fatto sentire non curiosi voyeur schierati nelle opposte squadre (è ancora vivo/è già morto), bensì partecipi, insieme, di una sofferenza che è parte della vita e della sua fragilità.
Non ha corrisposto alle richieste della società della trasparenza, non ha soddisfatto la nostra curiosità, ma è andato oltre. Si è fatto vicino, come mai una fotografia avrebbe potuto. C’è una poesia di Patrizia Valduga (si sa che Papa Francesco ama la poesia!) che mi è ritornata in mente in questi giorni: «Signore, da’ a ciascuno la sua morte, dalla tutta inverata dalla vita; ma dacci vita prima della morte, in questa morte che chiamiamo vita». Qualunque sia il momento in cui Papa Francesco la lascerà, la sua è una vita «inverata». Il suo grazie sussurrato a chi prega per lui è anche un invito a non aver paura della morte, e a non chiamare vita ciò che vita non è. Compresi tutti i tentativi di manipolazione, nelle loro tante forme.
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