Un capolavoro inedito del Mantegna ritrovato nel Santuario di Pompei
di
Davide Tizzo
La "Deposizione" del celebre pittore sarà in mostra ai musei Vaticani da giovedì

Il corpo morto di Cristo domina la scena, avvolto dal sudario e sorretto dagli uomini affranti. Maria è raffigurata al centro, in penombra, ripiegata su sé stessa. A destra, Maddalena alza il volto al cielo urlando dal dolore, con il volto cosparso di lacrime. Sullo sfondo, la luce del tramonto illumina i monumenti di una Gerusalemme che rievoca una Roma antica, con tanto di Pantheon. Questa Deposizione, ritrovata pochi anni fa nel Santuario di Pompei, di cui vi diamo l’anticipazione, è opera di Andrea Mantegna (1431-1506), e da giovedì 20 sarà in mostra nella pinacoteca dei Musei Vaticani a Roma per alcuni mesi.
Mantegna è un pittore che negli ultimi anni ha visto accrescere il suo catalogo grazie ad alcune opere scoperte nei depositi di alcuni musei, come La Resurrezione di Cristo all’Accademia Carrara di Bergamo o la Madonna col Bambino, San Giovannino e sei sante dal Correr di Venezia. Quest’ultima, però, è indubbiamente la più sensazionale, soprattutto per l’insolito luogo del rinvenimento: Pompei. Come ci è arrivata questa Deposizione? Il grande pittore veneto non si recò mai nel Meridione; si spinse sino a Roma negli anni tra il 1488 e il 1490, invitato da papa Innocenzo VIII per affrescare la cappella del Belvedere nei Palazzi vaticani (un ciclo andato purtroppo distrutto).
A sciogliere il mistero c’è però un importante documento storico. Nel marzo 1524 l’umanista Pietro Summonte scrisse al suo amico Marcantonio Michiel che a Napoli si trovava in Santo Dominico una cona (icona, ndr.), dove è Nostro Signore levato dalla croce e posto in un lenzolo, di mano del Mantegna. Questa lettera, ritenuta il principale documento sull’arte napoletana del Rinascimento – nonché «il più antico compendio della storia dell’arte napoletana» secondo Julius von Schlosser – è stata analizzata da alcuni critici in passato. Fausto Nicolini le dedicò un volume nel lontano 1923, L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel, seguito poi da Ferdinando Bologna, allievo di Roberto Longhi, che in un articolo su “Paragone” del 1956 rese note alcune versioni più tarde del dipinto: una fa parte del polittico conservato ancora oggi nella collegiata di San Giovanni Battista ad Angri, nel Salernitano, un’altra è attualmente in collezione privata. La Deposizione originale sembrava invece perduta.
Da questi studi sono partite le indagini di Stefano De Mieri, docente di Storia dell’arte moderna all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nonché allievo di Bologna, che ci racconta in esclusiva come lo ha ritrovato. «Ho scoperto il quadro nel luglio del 2020 consultando il portale BeWeb, dove è confluita l’inventariazione dei beni mobili delle diocesi italiane e che costituisce da tempo uno strumento formidabile per la conoscenza del patrimonio artistico, specialmente di quello non censito dalle Soprintendenze». Sul sito era pubblicata proprio l’immagine di una Deposizione molto rovinata conservata a Pompei, che lo studioso ha collegato a quelle citate nel saggio del suo maestro. «A causa della pandemia – racconta – mi fu possibile osservare l’opera de visu, presso la Prelatura di Pompei, solo l’anno dopo, nell’estate 2021. Il dipinto si presentava molto alterato dai rifacimenti ma le parti meno compromesse - il volto della Maddalena in lacrime, lo sfondo con la Gerusalemme celeste, la porta monumentale a sinistra vagamente rievocante l’Arco di Tito - erano di una qualità tanto elevata da escludere che ci si trovasse dinanzi a un’ulteriore copia antica». A questo punto, De Mieri si è attivato perché la Deposizione venisse restaurata. «E ciò è stato possibile grazie all’intervento della direttrice dei Musei Vaticani, Barbara Jatta e alla sensibilità dell’arcivescovo di Pompei, Tommaso Caputo, che ha voluto affidare l’opera ai laboratori dei Vaticani, vale a dire a una delle strutture in grado di operare ai massimi livelli nel campo del restauro». La Deposizione è stata quindi portata a Roma e lentamente ripulita dalle ridipinture successive, che hanno fatto emergere la mano del suo autore, qui al culmine della sua attività.
Lo studioso, intanto, ne sta ricostruendo la storia. «La mia l’ipotesi è che l’opera facesse parte dell’allestimento della cappella absidale di San Domenico Maggiore a Napoli, che sin dal 1494 aveva cominciato ad accogliere le arche, e dunque le spoglie dei sovrani aragonesi. Da alcune fonti sappiamo che ai lati dell’altare maggiore, prima dell’incendio del 1506, si trovavano due altari, su uno dei quali forse poté essere sistemato il dipinto». Mantegna avrebbe realizzato quindi la Deposizione nell’ultimo decennio del 1400, poco dopo il soggiorno romano, forse su commissione di Federico I re di Napoli (nonché zio di Isabella d’Este, la celebre marchesa di Mantova che commissionò a Mantegna varie opere); i monumenti sullo sfondo, dopotutto, sono le sue tipiche reinterpretazioni dell’antichità, mai semplici riproduzioni. Resta ancora molto da indagare, perché già dal 1500 il quadro sembra sparire nel nulla: l’incendio che devasta la basilica all’inizio del secolo molto probabilmente avrà danneggiato l’opera, che subisce in seguito alcune pesanti ridipinture (ora rimosse dai restauri) venendo spostata rispetto alla sua collocazione originaria, tanto che nelle guide e nei testi dei secoli seguenti non se ne fa mai menzione. Un silenzio che fa sì che venga completamente dimenticata, insieme al suo autore. Nel corso del 1800, molto probabilmente tramite una donazione, la Deposizione, ritenuta ormai opera di un autore ignoto, viene portata nel Santuario di Pompei. Fino all’attuale scoperta.
E una felice coincidenza ha voluto che proprio in queste ultime settimane Papa Francesco abbia canonizzato il suo fondatore, Bartolo Longo. Si può capire bene, allora, la gioia dell’arcivescovo Tommaso Caputo, che ad Avvenire ricorda come «150 anni fa fu proprio un quadro «il certificato di nascita” della “Nuova Pompei”. Raffigurava la Beata Vergine del Rosario che Longo volle portare lì. Non aveva pregio artistico, e non era neppure particolarmente attraente quell’immagine che sembrava segnata da una sorta di precarietà permanente, viste anche le avventurose modalità con le quali il dipinto arrivò da Napoli a Pompei. Un secolo e mezzo dopo, sempre attraverso un quadro, Pompei aggiunge un tratto straordinario alla sua storia». In quanto alla futura collocazione, questa Deposizione, spiega monsignor Caputo, «troverà naturalmente posto nel museo centrale del Santuario. I lavori di sistemazione sono in corso e si concluderanno in tempo per accogliere il dipinto dopo l’esposizione ai musei Vaticani. Non è stato un iter facile quello che ha portato alla definitiva certificazione, avvalorando così la felice e provvidenziale intuizione circa l’autore da parte del professor De Mieri. Il “Il Mantegna di Pompei” avrà il posto d’onore in una sala che comprenderà altri dodici dipinti di pregevole fattura, appartenenti in gran parte alla scuola napoletana del ‘600 e del ‘700. Si sta insomma preparando la casa a un ospite così illustre, che testimonia come anche sotto il profilo dell’arte pittorica Pompei sia un grande punto di riferimento».
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