I nuovi imperi e il rischio oblio per i diritti umani

di 
Davide Tizzo
La Corte penale internazionale si occupa dei reati compiuti verso le comunità e l’uomo: ma il suo attivismo è scomodo alle nazioni autoritarie che dominano l’attuale atlante geopolitico mondiale
17 marzo 2025 alle ore 20:46
La Corte penale internazionale che ha sede all’Aia nei Paesi Bassi © ANSA
La Corte penale internazionale che ha sede all’Aia nei Paesi Bassi © ANSA
Il volume Giustizia e conflitti internazionali, riflessioni a partire da Ucraina, Israele e Gaza (Seb27, pagine 272, euro 19,00), analizza attraverso i contributi di storici e giuristi, gli atti dalle Corti internazionali, che intervengono sulle violazioni del diritto internazionale. Alberto Perduca, curatore del libro insieme ad Andrea Spagnolo, scrive qui un’anticipazione che illustra il lavoro della Corte penale internazionale negli ultimi anni, e gli ostacoli opposti da Stati potenti, che proteggono i criminali e criminalizzano i magistrati). Alberto Perduca, già magistrato (1979-2021), con esperienze presso varie organizzazioni internazionali tra cui Unione Europea, Consiglio d’Europa, Organizzazione per la cooperazione e sicurezza in Europa, Nazioni Unite sui temi del diritto e della giustizia penale.
Nel marzo 2023 alla Corte penale internazionale bastano trenta giorni per pronunciarsi sulla richiesta del procuratore e ordina l’arresto del presidente della Federazione russa Vladimir Putin unitamente a Maria L’vova-Belova, commissaria presidenziale per i diritti dell’infanzia. L’addebito è di crimini di guerra connesso all’illegale trasferimento di minori dal territorio ucraino a quello russo nel corso della cosiddetta operazione militare speciale avviata nel febbraio 2022. Seguono, nel giugno 2024, i mandati contro Sergei Shoigu e Valery Gerasimov, l’uno ministro pro tempore della Difesa e l’altro suo vice nonché ì capo di Stato maggiore delle forze armate russe. A loro carico vengono ipotizzati crimini di guerra e contro l’umanità per gli attacchi missilistici che sotto il loro comando, per mesi – tra il 2022 e il 2023 – colpiscono le infrastrutture elettriche ucraine. L’anno dopo, ai giudici dell’Aja occorrono sei mesi per decidere sull’analoga istanza che colpisce il vertice politico di Israele. L’esito è però lo stesso. Nel novembre 2024 Benjamin Netanyahu – insieme a Yoav Gallant, ministro della Difesa – viene raggiunto dal mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità in relazione all’attacco condotto da Israele su Gaza in risposta al massacro di almeno milleduecento persone – militari, civili, bambini, donne e anziani – e al rapimento di altri duecentocinquanta compiuti dai miliziani di Hamas. Ad ambedue gli esponenti di governo si addebitano il ricorso alla «fame come metodo di guerra, l’assassinio, la persecuzione nonché altri atti inumani » contro la popolazione civile della Striscia, privata di beni e servizi essenziali. Nel contempo viene ordinato l’arresto anche di Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri, noto come Dief, comandante supremo dell’ala militare di Hamas. L’accusa è di crimini contro l’umanità e di guerra, consistiti negli innumerevoli episodi di «assassinio, stupro, tortura, trattamento crudele, presa di ostaggi, oltraggio alla dignità umana» scatenati con l’incursione in territorio israeliano del 7 ottobre 2023. Passano pochi giorni e, a fine novembre 2024, quando ancora non si sono placate le reazioni al mandato contro il primo ministro e il ministro della Difesa israeliani, il procuratore annuncia di aver richiesto alla Corte la cattura di Min Aung Hlaing, il comandante in capo delle forze armate e l’attuale presidente del Myanmar a seguito del colpo di Stato del 2021. Al numero uno del potere a Rangoon si imputano i crimini contro l’umanità di «deportazione e persecuzione» contro i Rohingya. I fatti risalgono al 2017 quando oltre settecentomila appartenenti alla comunità di religione musulmana – discriminata gia a partire dagli anni Sessanta – sono costretti dalla brutalità delle forze armate e di sicurezza birmane all’esodo in Bangladesh. Gia nel settembre 2018 viene pubblicato un rapporto della Missione internazionale per l’accertamento indipendente dei fatti occorsi in Myanmar, istituita dall’Onu. In esso si legge come non solo gli stupri, gli assassini e le distruzioni di massa sono da qualificare come crimini contro l’umanità e di guerra, ma che vi e sufficiente materia a che l’alta gerarchia dell’esercito birmano sia sottoposta a indagine e incriminazione in modo che un tribunale competente possa determinarne la responsabilità per genocidio. Il nuovo anno, e precisamente la seconda meta di gennaio 2025, vede il procuratore richiedere alla Corte il mandato di arresto a carico di Haibatullah Akhundzada e Abdul Hakim Haqqani, rispettivamente capo supremo dei Talebani e presidente della Corte suprema dell’emirato islamico d’Afghanistan in quanto accusati di crimini contro l’umanità per persecuzioni di genere compiute a partire dal 2021. Le vittime, soprattutto donne ma non solo, avrebbero patito violazioni gravi ai diritti fondamentali in tema di integrità fisica, autonomia corporale, circolazione, manifestazione di pensiero, riunione, vita privata e familiare. La Corte penale internazionale sta manifestando negli ultimi due anni un dinamismo non raggiungo lungo l’intero ventennio precedente, da quando nel 2002 è entrata in funzione. Almeno tre aspetti meritano di essere ricordati. Non sfugge innanzitutto il livello dei destinatari dei provvedimenti, decisi o anche solo richiesti. Nella lista figurano due capi di Stato, di cui uno del Paese più esteso al mondo, componente del Consiglio di sicurezza dell’Onu e detentore del più numeroso armamento nucleare. A costoro si aggiunge il capo del governo di uno Stato democratico legato all’Occidente da storici legami. Non meno importante e poi la circostanza che i crimini perseguiti dalla Corte coinvolgono, per la prima volta, l’Europa nonché l’Oriente, vicino e lontano. Infine, i mandati vengono adottati all’esito di indagini compiute durante il corso dei conflitti. La creazione della Corte, sancita nello Statuto di Roma nel 1998, rappresenta una tappa cruciale dell’accidentato cammino intrapreso dopo il secondo conflitto mondiale per dare una risposta di giustizia ai «milioni di bambini, donne e uomini (…) vittime di atrocità inimmaginabili che turbano profondamente la coscienza dell’umanità». Di questi tempi, la consapevolezza storica di tutto ciò si sta smarrendo per lasciare il posto alla losingoli giche di convenienza e di schieramento. La Corte gode dello statuto di indipendenza ma non della dote dell’autosufficienza. Essa per operare, e cioè per indagare, arrestare gli imputati e detenere i condannati necessita della cooperazione internazionale il cui obbligo incombe espressamente su-gli Stati che sono parti dello Statuto. Peraltro, tale collaborazione, pur dovuta, può di fatto difettare, in tutto o in parte, per insufficienza di risorse, disinteresse o valutazione politica. A ciò si aggiunga la schiera di Stati che non aderiscono allo Statuto e dai quali pertanto non è giuridicamente esi-gibile alcuna assistenza. L’elenco comprende un terzo circa dei Paesi del globo e soprattutto annovera – oltre a Stati Uniti, Russia e Israele – Cina e India. Il più vistoso aspetto della mancata collaborazione consiste proprio nelle resistenze opposte all’esecuzione dei provvedimenti di cattura richiesti e ottenuti dal procuratore. Le iniziative sul conto di Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu suscitano immediate e virulente reazioni. A essere messe in causa e rifiutate sono la legittimazione della Corte e la legittimità del suo operato. Le autorità russe non indugiano ad aprire un procedimento penale contro procuratore e giudici autori del provvedimento a carico di Vladimir Putin. Addirittura, al pari di pericolosi criminali, il ministero degli Interni li inserisce nella lista dei catturandi. Sul versante israeliano, l’iniziativa dei giudici internazionali viene subito bollata come decisione «antisemita, l’equivalente moderno del processo Dreyfus», quindi da essere rigettate «con disgusto le azioni e le accuse, assurde e false, che [...] vengono mosse dalla Corte, organo politico parziale e discriminatorio». Sullo sfondo le iniziative prese contestualmente nei confronti dei dirigenti di Israele e Hamas vengono considerate come segno di intollerabile equiparazione tra i due campi. E ciò nonostante la funzione fondamentale della giurisdizione dell’Aia sia quella di accertare le responsabilità dei individui. Parimenti ostili si dimostrano gli Stati Uniti, che non aderiscono allo Statuto e che tradizionalmente esprimono il disfavore verso la Corte. Ad appena quindici giorni dal suo insediamento, all’inizio di febbraio 2025 il nuovo presidente adotta un executive order con cui vengono ripristinate le sanzioni contro la Corte accusata di essere un organo illegittimo e di agire contro gli Stati Uniti e Israele senza base legale alcuna. Non meno preoccupante è la scarsa o nulla determinazione che affiora tra gli stessi Stati che riconoscono la giurisdizione della Corte internazionale. Lo testimonia il recente e clamoroso caso del nostro Paese componente, fin dal 1998, dello Statuto di Roma il quale sancisce fra l’altro l’obbligo di arrestare e consegnare i ricercati senza che alle autorità nazionali sia consentito di sindacare il merito dei mandati provenienti dall’Aja. Eppure a meta gennaio 2025, per volontà del ministro della Giustizia non e data esecuzione al mandato di cattura internazionale che pende a carico del generale libico Osama Elmasry Njeem, dapprima al suo ingresso in Italia sottoposto ad arresto provvisorio dalla polizia – non convalidato dall’autorita giudiziaria – e poi espulso dal ministero dell’Interno che ne dispone l’accompagnamento in Libia. Al ricercato i giudici dell’Aja addebitano crimini contro l’umanità e di guerra consistiti nell’illecita detenzione, nella tortura, nello stupro, nella violenza sessuale, nell’omicidio, nella persecuzione e nell’oltraggio alla dignità umana inflitti a migranti detenuti in Libia a partire dal febbraio 2015. La Società italiana di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione Europea (Sidi), associazione composta da accademici delle rispettive discipline, constata in un comunicato stampa del 26 gennaio 2025 che le condotte tenute dalle autorità italiane – il cui difetto di coordinamento rischia quantomeno di provocare un danno gravissimo e irreparabile alla reputazione del Paese – possono far sorgere «la responsabilità internazionale dell’Italia nei confronti degli altri Stati parte allo Statuto di Roma, delle Nazioni Unite [...] e pure [...] della comunità internazionale nel suo complesso». Come prevedibile, nel febbraio 2025, alla mancata consegna del ricercato segue la richiesta del Procuratore internazionale di deferire l’Italia all’Assemblea degli Stati parte per violazione dello Statuto. Oggi è più che mai reale il rischio che la giurisdizione internazionale, esposta al progressivo logoramento, per troppa ostilità e poco appoggio, finisca per ridimensionare – quantomeno di fatto – la sua missione. In tal caso si schiuderebbe la porta a un futuro angusto che si sperava superato: quello di una giustizia internazionale posta nelle condizioni di occuparsi dei peggiori crimini contro la vita, la libertà e la dignità umane soltanto se commessi da – e in – Paesi poco o nulla influenti e non anche dalle potenze globali e dai loro alleati. Quanto sta accadendo negli ultimi tempi pone la Corte su un inquietante piano inclinato. In assenza di una controspinta il futuro è che, senza onore per nessuno, si interrompa il pur difficile e lento percorso di crescita dell’idea secondo cui le più gravi violazioni dei diritti fondamentali non debbono restare (totalmente) impunite e che occorra (anche) un giudice internazionale affinché giustizia (almeno in parte) sia resa.

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