La Ue e l'emergenza ucraina: perché serve un sussulto di dignità
di
Davide Tizzo
Il tempo per le scelte è poco. La clessidra si è rovesciata dal drammatico scontro tra Trump e Zelensky. Il vertice di Londra di domenica è servito forse a frenare il flusso della sabbia...

Il tempo per le scelte è poco. La clessidra si è rovesciata dal drammatico scontro in mondovisione tra Trump e Zelensky. Il vertice di Londra di domenica è servito forse a frenare il flusso della sabbia, ma giovedì 6 marzo, al Consiglio Europeo straordinario sull’Ucraina e la difesa europea, eventuali rinvii o proroghe di decisioni comuni potrebbero dare un drammatico segnale di polverizzazione dell’Europa. E non rendere credibile il negoziato per fermare la guerra in Ucraina.
Tutto avviene in un clima d’emergenza di cui diverse generazioni di leadership nazionali ed europee portano la responsabilità. Tra chi ha vissuto l’Europa come una comfort zone, e chi ha scommesso tutto, dal punto di vista elettorale, sulla character assassination di Bruxelles, almeno 20 anni sono stati buttati al vento, salvo i sussulti di dignità arrivati durante la pandemia.Ma il tempo è così poco che non si può indugiare, almeno per ora, sulle colpe di chi ha mancato tanti appuntamenti con la storia, lasciandoci oggi impreparati di fronte alla storia nuova che Trump vuole scrivere con tratti impetuosi. Una impreparazione, però, che non può diventare un alibi per assumere scelte parziali, che confondono l’«uno per il tutto», che attribuiscono un valore salvifico a una sola tessera del puzzle.
Perché è chiaro, di una maggiore capacità di difesa dell’Europa, di una crescente disponibilità nel Vecchio Continente a «badare a se stessi», riequilibrando l’ombrello Nato, si parla da tempo. Ma sarebbe drammatico se l’intera risposta dell’Ue all’uragano Trump si esaurisse nel solo riarmo e nello spostamento di miliardi e miliardi di euro dal welfare, dalla salute, dall’istruzione alla produzione di materiale bellico.
Sarebbe preoccupante se si pensasse di «risolvere» gli atavici problemi di competitività delle nostre economie convertendo sulla difesa un pezzo rilevante del nostro apparato industriale.
Tenendo ben alla larga gli utopismi, è giusto che chi ama davvero l’Europa pretenda un «risveglio» ben più articolato, profondo, persino «profetico». E comunque rapido, perché le proposte sono già sul tavolo da tempo. Procedere senza indugi sulla strada della maggiore integrazione politica – a partire dalla governance delle paralizzanti decisioni all’unanimità –, sociale, fiscale, economica, finanziaria e commerciale, anche a costo di sfidare a viso aperto, nei dibattiti interni ai singoli Stati membri, chi soffia sull’euroscetticismo se non sulla dissoluzione del sogno europeo. Sin troppe ambiguità sono state tollerate, nelle cancellerie e anche a Bruxelles, per costruire coalizioni-arlecchino in cui si è cercato di domare l’avversione all’Unione. Perché un conto è recepire le istanze sociali cui danno voce le forze politiche «agli estremi», altro è legittimare con mediazioni al ribasso tesi politiche che mirano a far sentire inadatta la democrazia europea e invece efficace e conveniente la forza delle autocrazie. Senza dunque sposare ingenuità che negano il significato della deterrenza, le scelte dell’Europa per la pace e la libertà dei popoli passano innanzitutto dalla costruzione di quella «soggettività politica» – premessa per qualsiasi progetto di difesa comune – ostacolata prima dagli egoismi nazionali e ora dalle forze anti-Ue in crescita elettorale.
Il primo segno, giovedì, sarà (o non sarà) la formulazione o meno di un piano per l’Ucraina promosso dall’Europa. Ovvero del creare i presupposti di un negoziato credibile per fermare la guerra. Il che non può prescindere da un coinvolgimento degli Stati Uniti, come sembra aver inteso anche Macron.
Sul tavolo ci sono le carte brutalmente girate da Trump, c’è la proposta di tregua franco-inglese (le uniche due potenze nucleari del Vecchio Continente, e questo sta diventando un fattore rilevante), ma manca un’ipotesi unitaria formulata dall’Ue. La sintesi è difficile, è evidente. Posizioni geografiche e interessi nazionali spingono in direzioni diverse. Ma rinunciarvi renderebbe puramente retorica anche la richiesta di partecipare ai negoziati. Convergere anzitutto sulla necessità di una tregua immediata – e creare quindi le pre-condizioni per negoziare – sarebbe un primo vero passo oltre che un sussulto di dignità.
Quanto all’Italia, la sensazione è che ancora manchi, nel dibattito interno, la percezione della gravità della situazione. La premier Giorgia Meloni chiede di tenere sempre aperto il canale con l’amministrazione Trump, e questo le procura critiche dalle opposizioni. In realtà, va detto, tutte le cancellerie europee, e la stessa Commissione di Bruxelles, sono ben attente a non sfilacciare il rapporto con Washington. Dal laburista Starmer al liberale Macron al popolare Merz, sino alla presidente di larghissime intese Ursula von der Leyen, nessuno sta teorizzando un europeismo isolazionista, o un identitarismo europeo da contrapporre al resto del mondo. Perciò forse in questa fase converrebbe recuperare dalla migliore tradizione parlamentare quell’unità sulla politica estera e sulle situazioni di crisi che sola ci può aiutare a non essere irrilevanti. Così come il solo «riarmo» non aiuta certo l’Europa a ritrovare sé stessa, allo stesso modo «riarmare» le truppe elettorali su temi che riguardano il futuro globale potrebbe rivelarsi una strategia miope, di cui pagheranno – pagheremo – il conto tutti.
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