La nuova "Bibbia di Gerusalemme": il successo della sete di verità

di 
Davide Tizzo
Debora Spadoni
Cresce, nel mondo, un rinnovato interesse per le Sacre Scritture: per un bisogno di conforto e consolazione ma anche perché si attende una primavera cristiana
17 marzo 2025 alle ore 16:43
Alcune edizioni della Bibbia di Gerusalemme © ANSA
Alcune edizioni della Bibbia di Gerusalemme © ANSA
Pare proprio che sia vero. Si vendono più Bibbie, ovunque. Crescono le vendite in America, dove l’antico fondamentalismo biblico rinverdisce odii ideologici e l’astio contro le persone omosessuali viene agitato in nome di un letteralismo biblico selezionato con l’anticristiana ipocrisia del «tua culpa, tua culpa, tua maxima culpa». La Bibbia vende bene nell’Europa dove le gerarchie ecclesiastiche d’ogni confessione piangono e piagnucolano mentre il pendolo della “secolarizzazione” giunge a fine corsa: e anziché preoccuparsi delle anime che se ne vanno dovrebbero preoccuparsi di quelle che tornano, convinte di essere mandate a separare grano e zizzania al posto loro ed assai anzitempo.
Anche in Italia la Bibbia (una qualsiasi) torna ad essere comperata: come amuleto, come sussidio o come regalino low cost ideale nelle feste della pastorale dei sacramenti, l’unica che oppone resistenza all’autodenigrazione basata sulle risultanze dei sondaggisti e dei catastali mandati a misurare comunità cadavere o affidate a badanti parrocchiali importati.
Accanto continua un fenomeno editoriale dei libri attorno alla Bibbia: meno nuovo, almeno in Italia. Tutti sanno che il Dio dei nostri padri di Aldo Cazzullo è stato il libro più venduto del 2024, cinque milioni di euro di fatturato. Se dunque non ha raggiunto né le Ipotesi su Gesù di Vittorio Messori da un milione di copie (1976), né l’Inchiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce (2007), ha però superato la trilogia su Gesù di Benedetto XVI e vedremo come se la giocherà con Genesi di Marilynne Robinson, uno dei dieci libri raccomandati da Barack Obama, in uscita a Pasqua in italiano.
Le interpretazioni di questo rinnovato interesse per la Bibbia, anche a guardare l’angolino italiano della questione, sono molteplici. Non mancano gli scettici, che osservano, giustamente, che fra comperare una Bibbia e leggere la Bibbia c’è una bella differenza. Gli storici notano che in un Paese nel quale il cattolicesimo ha sospettato della lettura e ancor più dello studio, sono le mediazioni (oggi giornalistiche e non più ecclesiali) che vincono sul testo e fanno storcere l’esegetico naso di quegli esegeti, che in fondo non si spiegano perché la Bibbia non la lasciano ad una scienza che in fondo si compiace di non diventare quasi mai sapere (almeno in Italia, dove le lauree magistrali specialistiche sono poche e c’è perfino chi vuole chiuderle perché il pallottoliere degli stolti ha scoperto che sono meno ambite di ingegneria). Gli invasati sperano che il fatturato degli editori preluda ad un "avanti popolo alla riscossa" di marca cristianeggiante, premessa per un "ricristianizzare l’Europa" che auspica la riga più divertente delle 1062 pagine di rapporti delle diocesi alla fine della fase sinodale detta "profetica". Poi ci sono i molti vescovi e aspiranti vescovi di Laodicea: tiepidamente speranzosi che questi segni, su cui non contano troppo, pospongano i due problemi (l’estinzione e la riduzione della trasmissione della fede a documenti sulla catechesi) con i quali non vogliono misurarsi. Non mancano e si fanno pure vedere in pubblico i “culturisti”: non quelli dei muscoli gonfi; ma quelli che pensano che la Bibbia vada conosciuta, perché è necessarissima per poter visitare i musei o verniciare di sacrale quella cultura “occidentale” che oggi vorrebbe spogliarsi di una concezione dei diritti non sempre implementata, e farne gli scendiletto degli imperatori di diversa capigliatura ma tutti incendiari, che dai loro palazzi vedono bruciare il mondo con grande sollazzo e porgono la loro profana pantofola al bacio dei sudditi e dei servi.
Va dunque male? No no... Va malissimo. E c’è altro? Sì sì, c’è altro, molto altro. Infatti in questo ritorno alla Bibbia ci sono tendenze ambigue: c’è un bisogno di conforto davanti alla fine di un mondo, che non è la fine del mondo; c’è il desiderio di consolazione più forte in chi non è angosciato dalla fine del mondo, ma dalla fine del mese; c’è la scoperta che, a costo zero, si può includere la religione dei padri nel pacchetto-benessere dove stanno yoga, malghe e monasteri; c’è la famosa “domanda di senso”, che la peggior apologetica indicava come adito per una religiosità sedativa. Ma c’è anche una sete che non ha nome. Sete del Nome, sete del Maestro, sete di Chiesa e di una primavera di chiese che potrebbe anche arrivare senza passare per forza dal Re-arm Europe al Re-destroy Europe e prima che qualcuno dei Neroni appicchi roghi suonando la cetra dell’atomica “tattica”.
Quella primavera cristiana, ammesso che non sia già iniziata dove il pigro occhio non vede, verrà. Abbia essa la forma di un san Francesco d’Assisi che indossa il radicalismo cristiano senza fronzoli; o la forma di papa Giovanni che chiama la Chiesa a concilio, ma verrà. Verrà prima che ritorni in auge un cristianesimo bellicoso e sanguinario, o dopo la sua catastrofe, ma verrà.
E quando verrà sarà perché è stato incubato a sufficienza l’amore alla Scrittura che è uguale nel dotto che la studia cercando una enclitica perduta in papiri grandi come un’aspirina e nei miti mendicanti di Dio, che la meditano, trattandola come si deve, solo per esserne impregnati. E non vi trovano né conforto, né oppio, né senso, né quiete, ma solo altra sete; e l’inquietudine che illumina le ipocrisie religiose e irreligiose; e la severità che, come diceva un grande maestro, tacita quella predicazione che si agita dicendo “Egli, Egli”, e a quell’egli sussurra “Tu, Tu”.
Trasmettere questa sete richiede strumenti, edizioni, istituzioni, istruzioni. Per cinque decenni uno di questi strumenti è stata la Bibbia di Gerusalemme. La Bibbia con le note che non fanno diventare nessuno esegeta, ma dicono a tutti che dietro il testo c’è uno spessore. La Bibbia coi rimandi marginali che tessono nel primo o antico testamento e fra quello e il nuovo, migliaia di paralleli, echi, riusi, che indicano immenso deserto di parole mille rotte fertili per arrivare al mercato dove vendere tutto e comperare il campo col tesoro (qualcuno ricorda su questo il libro, copertina bianca e un rigo nero, di Daniel Attinger?).
La Bibbia di Gerusalemme italiana ha fatto una scelta diversa dalla sua matrice francese di Cerf: anziché fornire una traduzione nuova (in Italia poche: ultima quella così bella di Enzo Bianchi) ha comperato i diritti della traduzione della CEI. Non per avere un testo “ufficiale”: ma perché chi riascolta quelle parole nella liturgia, le riconosca, le labbreggi, le canti. E alla fine – in questo grande formicaio religioso, dove si agitano depressioni pastorali, apericene spirituali, cantilene devozionali, eccitazioni partecipative e tavolate sinodali – aspetti.
Fra le istruzioni per chi Bibbia di Gerusalemme vorrebbe collezionare (iniziano a proporre le loro domani a Bologna il cardinale arcivescovo Matteo Zuppi e Aldo Cazzullo) ce n’è una che Igor Stravinskij prese dalla traduzione latina del Salmo 40,2 e musicò nel 1930: Expectans expectavi: mentre stavo aspettando, ho aspettato.

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