Jeton Neziraj: «Porto in scena la democrazia»
di
Davide Tizzo
La pièce “Negotiating Peace” sul palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze per riflettere sui processi di pace, immaginando le trattative di due Paesi immaginari

«Per un figlio della guerra come me non esiste niente di più incontaminato del teatro per testimoniare gli orrori dei conflitti e ampliare la nostra comprensione della democrazia ». Il drammaturgo kosovaro Jeton Neziraj, detto il “Kafka dei Balcani”, è un autore profondamente politico che ha messo in scena con uno stile grottesco e surreale temi delicati come la guerra, il nazionalismo e la manipolazione della storia. Le sue opere teatrali hanno ottenuto riconoscimenti prestigiosi in tutto il mondo ma nel suo Paese è uno degli artisti più controversi, i cui testi sono spesso censurati dalle autorità e presi di mira dai nazionalisti con intimidazioni e minacce. Il suo ultimo lavoro Negotiating Peace - che andrà in scena al Teatro della Pergola di Firenze l’8 e il 9 maggio alle ore 21 - è una commedia satirica sui processi di pace in cui due Paesi immaginari, il Mikistan e la Banovina, rappresentano in forma allegorica la diplomazia internazionale e i negoziati post-bellici dei nostri tempi. Una produzione realizzata con artisti e gruppi teatrali provenienti da molte parti d’Europa che prende spunto dai più recenti scenari di guerra per raccontare cosa succede dietro le quinte di un negoziato evidenziando l’aspetto farsesco della diplomazia.
Quanto ha inciso l’eterno dopoguerra che il suo paese continua a vivere dopo le guerre degli anni ‘90 sulla nascita di questo spettacolo?
«Parecchio. In Kosovo il tema dei negoziati di pace ci accompagna ormai da molto tempo ma sono stati i nuovi eventi seguiti all’invasione russa dell’Ucraina a spingerci ad affrontare questo tema. Da noi i negoziati tra il Kosovo e la Serbia sono diventati quasi uno “stile di vita”, qualcosa di cui non si può quasi fare a meno. Ma ci sembrava necessario allargare lo sguardo esaminando cos’è successo anche in altre guerre e in altre conferenze di pace in tutto il mondo».
Com’è riuscito a raccordare insieme contesti molto diversi tra loro come il Kosovo, la Bosnia, il Medio Oriente e l’Irlanda del Nord?
«Quello che accomuna queste conferenze di pace è il modo in cui sono state organizzate e condotte. Nella migliore delle ipotesi hanno assunto le sembianze di un circo, nella peggiore si sono trasformate invece in una sorta di parodia in cui politici frustrati hanno riversato la loro rabbia e le loro frustrazioni, hanno mentito e agito in modo ambiguo giocando con le emozioni delle persone, si sono comportati come bambini viziati e irresponsabili che non devono rendere conto a nessuno. Attualmente stiamo vedendo qualcosa del genere nei colloqui in corso da una quindicina di anni tra Kosovo e Serbia ma è un copione che può essere adattato anche altrove ».
Quali sono, secondo la sua interpretazione, le principali sfide di un processo di pace?
«Una parola che li descrive molto bene è “ipocrisia”. I negoziati dovrebbero basarsi su obiettivi solidi e onesti ma accade molto di rado, quasi mai, perché a prevalere sono invece gli interessi economici e po-litici, l’avidità e le acrobazie diplomatiche. In molti processi di pace i valori e la dignità umana vengono spesso emarginati e degradati per lasciare il posto alla diplomazia, che il più delle volte è una specie di partita a scacchi. Si contratta persino sui morti, che sono visti come una risorsa a scopo di lucro. Non è forse ciò che accade ogni giorno in Ucraina e in Palestina? Ma abbiamo visto lo stesso anche in Kosovo, nel dopoguerra, dove per ogni cadavere albanese riesumato da una fossa comune in Serbia veniva chiesto qualcosa in cambio».
Ritiene che l’arte possa contribuire alla pace, o perlomeno sensibilizzare il pubblico sulle difficoltà che comporta il suo raggiungimento?
«Credo che soprattutto il teatro possa giocare un ruolo molto importante. Innanzitutto può ampliare la nostra comprensione della democrazia. Ma in questi tempi turbolenti ha anche il compito di testimoniare la sofferenza umana per trasmetterla alle generazioni future, con la speranza che non si ripeta. Viviamo in un’epoca di grande incertezza. Personalmente ho molta paura per tutto quello che sta accadendo intorno a noi. Temo per i miei figli, per la mia famiglia e per tutta questa generazione che sta precipitando, forse inconsciamente, in una prossima tragedia. Sono un figlio della guerra e ricordo bene la tristezza e il dolore di quegli anni. Credo che il teatro sia invece il mezzo più incontaminato che ci è rimasto. Se lo Stato e la società diventano ostaggio di politici corrotti, se il governo assume una mentalità autoritaria e la religione richiede con violenza la propria parte di potere, se i mezzi d’informazione sono schiavi della febbre del profitto e l’etica giornalistica diventa irrilevante, cosa ci resta se non l’arte e la cultura?»
Lei è stato allontanato dalla direzione del teatro nazionale di Pristina e la sua compagnia, Qendra multimedia, è stata recentemente costretta ad abbandonare la propria sede. Quanto è difficile fare arte nel Kosovo di oggi?
Lei è stato allontanato dalla direzione del teatro nazionale di Pristina e la sua compagnia, Qendra multimedia, è stata recentemente costretta ad abbandonare la propria sede. Quanto è difficile fare arte nel Kosovo di oggi?
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