La “decimazione” invisibile delle minoranze non slave
di
Davide Tizzo
In molti scelgono di combattere per qualche migliaia di euro. E la speranza di una vita migliore. Ma non tornano più a casa nelle regioni più remote e nascoste ai media

Non solo la “denazificazione” dell’Ucraina. In Russia è in atto una vera propria “decimazione” su base etnica, seppur non preventivata e involontaria, che sta colpendo tutte le minoranze non slave. È il prezzo della guerra e a pagarlo sono i volontari che vengono dalle regioni più remote dello sterminato territorio russo. Uomini che si sono arruolati spontaneamente per qualche decina di migliaia di euro, mai più di trentamila, e che per il sogno di una vita meno misera non sono mai tornati nelle loro case. Le stime ufficiali probabilmente non si sapranno mai, ma alcuni ricercatori in Buriatya hanno iniziato a tenere il conto dei necrologi, quelli dei morti certi e quelle degli uomini che non risultano negli ospedali ucraini e nemmeno nei comandi a cui erano stati assegnati. I dati sono stati incrociati con quelli registrati dal quotidiano online indipendente Mediazona.
I risultati non lasciano dubbi. Più le comunità sono remote, ristrette numericamente e localmente concentrate più sono state blandite con le promesse di una vita migliore. Le mogli hanno convinto i mariti ad arruolarsi e questi ultimi hanno obbedito, anche solo per uscire dalla condizione di indigenza che caratterizzava le loro vite. Gruppi etnici di cui nemmeno i russi hanno mai sentito parlare e che, quando l’operazione militare speciale sarà finita, se non scompariranno dall’anagrafe, di sicuro diminuiranno sensibilmente.
Secondo le ricerche in un villaggio della regione di Khabarovsk, nell’estremo est della Russia e non lontano dal confine con la Cina, in un villaggio con 80 famiglie, su 15 uomini 10 sono partiti per l’Ucraina e non sono più tornati.
I ricercatori hanno compilato una classifica che tiene conto del numero di persone morte al fronte ogni 10mila uomini in età da lavoro. Al primo posto si piazza la repubblica di Tuva, che si trova nella Siberia centro meridionale e comprende un lungo confine con la Mongolia. Qui i morti accertati sono 106 su 10mila, per oltre il 60% di etnia tuvana. Al secondo posto, c’è la repubblica di Altai con una media di 74 morti ogni 10mila, che confina con Tuva e dove, anche qui, i volontari che sono partiti non appartengono all’etnia slava. Al terzo posto, c’è la Buriatya, con 73 morti ogni 10mila abitanti. Divisi per etnie, la minoranza che ha pagato il prezzo più alto sono i Telengiti, il più antico gruppo etnico russo appartenente al ceppo turco e che vivono proprio al confine con la Mongolia e il Kazakhstan. Al secondo posto ci sono gli Udege, caratterizzati dai tratti orientali e che abitano nell’Estremo Oriente russo.
Se si considera che la loro popolazione totale è poco più di 1.500 unità. Al terzo posto si trovano i ciukci, stanziati soprattutto nella regione nord-orientale, dove la Russia sfiora l’Alaska e dove questa popolazione paleo siberiana, il cui numero è inferiore alle 16mila unità, ha vissuto per secoli di pesca e, ancora oggi, chi è rimasto coltiva culti sciamanici. Tessere di quel grande mosaico che è la Russia, il Paese più esteso del mondo e con il maggior numero di etnie e religioni, ma che, a furia di sacrificare le sue tante facce dando la precedenza a una sola rischia di scomparire.
© RIPRODUZIONE RISERVATA