I sogni di Nadia, Samah e Ahlam in fuga dal Libano

di 
Alessandro Rossi
Sono soprattutto le donne a essere protagoniste delle migrazioni da Tripoli verso l'Europa. Il racconto di tre storie, non a lieto fine, iniziate nel quartiere poverissimo di Bab-al-Tabaneh
12 maggio 2025
Dare voce alle donne. Quando e dove non ne hanno. Perché della loro condizione ancora troppo svantaggiata si sappia e si parli. Dal Libano all’Iraq, dal Messico alla Nigeria, dall’Afghanistan alla Somalia, dall’India al Perù: sono 10 le reti indipendenti di giornaliste che hanno aderito alla nostra proposta “Donne senza frontiere”, il progetto di Avvenire per l’8 marzo 2025. A partire da quella data pubblichiamo ogni 15 giorni un reportage di ciascuna delle reti coinvolte. Questa puntata è stata realizzata dalla giornalista Sandy Hayek da Tripoli (Libano), della rete femminista Sharika Wa Laken.
Spinte dalla disperazione e aggrappate a una speranza che somiglia più a un miraggio che a una certezza, Nadia, Samah e Ahlam hanno affrontato un rischio estremo: salire su una barca della morte, sfidando il mare e la possibilità concreta di non tornare più indietro, assieme ai propri genitori o ai figli piccoli. Dopo notti segnate dall’incubo, dopo aver perso tutto, oggi sono pronte a rischiare ancora. Perché? Ognuna di loro ha una storia diversa, tutte condividono lo stesso punto di partenza: Bab al-Tabbaneh, quartiere di Tripoli (la seconda città del Libano, 85 km a nord di Beirut, ndr) tra i più poveri del Mediterraneo. Nadia è ancora minorenne, vicina ai 18 anni. Samah e Ahlam sono madri, donne che portano sulle spalle il peso di famiglie intere. Hanno subito ingiustizie dalla vita, dalla società, dallo Stato. Ed è ora di ascoltarle.
Nadia, che non smette di cercare suo padreQuattro anni fa Nadia era una ragazza sana, solare, bella. Legata profondamente al padre, Mohammad al-Hamwi, conosciuto come “al-Samak”, pescatore e dipendente della ditta Lavajet. L’uomo aveva sposato una seconda moglie e si era trasferito in Africa per cercare fortuna. Ma lì ha contratto la malaria e, su insistenza della moglie, ha deciso di tentare la via dell’Europa, di affidarsi ai trafficanti per raggiungere, via mare, un futuro migliore. Il 23 aprile 2023, alle 10 di sera, è tornato a casa gridando: «Siete pronti? Prendete le vostre cose e venite con me». La famiglia è salita a bordo di un’imbarcazione sulla costa di Abdeh, in Akkar, nell’estremo nord del Libano, insieme a decine di altre persone. Ma durante la traversata, l’esercito libanese ha intercettato il natante. Il trafficante ha rifiutato di fermarsi, il motore è stato colpito, e l’acqua ha cominciato a penetrare nella barca. In pochi attimi, il panico e poi il naufragio. Solo Nadia e suo fratello Ali sono riusciti a salvarsi. Ma hanno perso tutto: padre, madre incinta di due gemelli, matrigna, sorellastre. Oggi vivono con la zia Fatima in condizioni di estrema povertà. Non hanno più frequentato la scuola, né ricevuto assistenza psicologica. Nadia, con occhi spenti e voce spezzata, continua a ripetere: «Mio padre è vivo. Io sono convinta che sia uscito dall’acqua. Era un grande nuotatore: è tornato indietro per salvare noi». E non smette di cercarlo, ripartirebbe subito e riaffronterebbere quell’odissea per poterlo riabbracciare.
Nadia e suo fratello - Shanika Wa Laken
Nadia e suo fratello - Shanika Wa Laken
Samah: madre sola, prigioniera della miseriaLa guerra non ha alcun riguardo per le sue vittime, che nella maggior parte dei casi sono donne e bambini. I loro corpi, i loro diritti, i loro bisogni e i loro sogni diventano il campo di battaglia. Samah ha quasi 50 anni, quattro figli e un marito ucciso da un cecchino a Bab al-Tabbaneh. Senza istruzione, né lavoro, né rete di supporto, ha provato tutto per sopravvivere dignitosamente. «Come posso trovare un impiego? Neppure i laureati ce la fanno. Non posso lasciare i miei figli soli per pochi spiccioli». Quando il cognato le parlò di un viaggio verso l’Europa via mare, Samah ha visto in quella proposta l’unica possibilità di salvezza. È riuscita a racimolare 10.000 dollari. «Sapevo che era pericoloso, ma altri ce l’avevano fatta. E forse Dio avrebbe aiutato anche noi». Sono partiti nel cuore della notte, stipati su una piccola barca insieme ad altre 90 persone. Lo spazio era inesistente, il freddo pungente. Sua figlia Layla aveva una vertebra fratturata. «Ho fatto di tutto per curarla, ho chiesto soldi a politici, a benefattori. Non ce la facevo più. Su quella barca mi dicevo: perdonatemi, lo faccio per voi». Per tre notti sono restati alla deriva, senza cibo né acqua. Una donna le ha affidato il suo neonato dicendole: «Non lo voglio più. Gettalo in mare». Samah lo ha tenuto con sé. «Mio figlio Zakariyya mi chiedeva: “Mamma, moriremo qui?” E io non rispondevo. Piangevo in silenzio». Quando finalmente furono salvati dalla marina libanese, l’interrogatorio è stato lungo. I soldi persi, la dignità pure. Eppure oggi, Samah lo ripete: «Se potessi riprovarci, partirei di nuovo».
In un Paese messo in ginocchioda anni di conflitti e ora dal tagliodegli aiuti internazionali, le madri di famigliaspesso preferiscono rischiare di morirepiuttosto che vivere nella miseria:«Vogliamo futuro, istruzione e salute per i nostri figli»
Ahlam: la donna delle speranze infranteAhlam, il cui nome in arabo significa “sogni”, ha 57 anni. Il suo sogno più grande è rivedere suo figlio, fuggito in Germania per sfuggire a una condanna in Libano. «Aveva 17 anni, era impulsivo e sciocco, ma non lo vedo da più di dieci anni e non passa giorno in cui non vorrei riabbracciarlo». Con il marito malato e i figli adulti incapaci di aiutarla, Ahlam ha speso tutti i suoi risparmi per tentare di raggiungere l’Europa. «O moriamo insieme, o viviamo insieme», gli ha detto. Sono partiti da Qalamoun. Dopo giorni in mare, sono arrivati in Turchia. Ma la polizia li ha arrestati e li ha rinchiusi in una prigione a Izmir. Lì hanno vissuto anche il trauma del terremoto. Un’associazione turca li ha aiutati a rientrare in Libano. Ma il sogno, per ora, resta tale. «Se potessi farlo di nuovo, lo farei. Non ho più tempo da perdere. O vivo con dignità, o questa vita non ha più senso».
Ahlam e suo marito - Shanika Wa Laken
Ahlam e suo marito - Shanika Wa Laken
Il dramma dei numeri, la responsabilità dell’EuropaSecondo i dati di Information International, tra il 2013 e il 2022 almeno 248 persone sono morte annegate cercando di migrare via mare. Centinaia risultano disperse. Solo nel 2021, le autorità libanesi hanno fermato 25 imbarcazioni con 750 migranti. I migranti, principalmente libanesi, siriani ed etiopi, partono dalle regioni più povere del Libano come Tripoli, Minieh, Qalamoun e Abdeh. Nonostante il numero di death boats, barche della morte, sia diminuito negli ultimi due anni, la minaccia di nuove tragedie persiste mentre il collasso economico del Libano spinge più persone a rischiare la vita. La devastazione della guerra israelo-palestinese ha ulteriormente paralizzato il Paese, causando danni stimati in 8,5 miliardi di dollari che colpiscono più duramente – di nuovo – donne e bambini. I flussi finanziari vitali per molti libanesi sono stati interrotti dai cambiamenti nelle politiche statunitensi, come la sospensione dei finanziamenti Usaid che supportavano istruzione, assistenza sanitaria e sviluppo economico. Inoltre, le minacce di tagli ai finanziamenti dell’Unrwa, che fornisce servizi essenziali a centinaia di migliaia di rifugiati palestinesi in Libano, accelerano la disperazione. L’Italia rappresenta la principale meta per queste traversate, accogliendo il 56% dei migranti. Il programma dei corridoi umanitari del governo, in collaborazione con la comunità di Sant’Egidio, ha previsto l’accoglienza di 300 migranti da Libano, Etiopia e Costa d’Avorio. Ma nessuno di loro otterrà asilo. Per molti libanesi, il sogno di una vita migliore rimane legato alla migrazione. Mentre l’Europa costruisce muri e frontiere, una domanda resta cruciale: non sarebbe meglio che si impegnasse per aiutare le persone a costruire un futuro dignitoso nei propri Paesi, piuttosto che vederle poi costrette a scegliere tra la miseria e la morte in mare?(traduzione dall’inglese a cura di Viviana Daloiso)
Sharika Wa Laken: la voce femminista del mondo arabo che sfida i poteri dominanti e mette le donne al centro
È una piattaforma digitale femminista all’avanguardia, Sharika Wa Laken (per leggerne la versione in inglese cliccare su https://en.sharikawalaken.media/), impegnata da anni ad amplificare le voci di donne e ragazze in tutte le loro diversità nella regione araba attraverso la voce, le riflessioni, i reportage e le denunce di giornaliste donne. Nata come braccio mediatico dell’organizzazione femminista di base “Female”, co-fondata dall’attivista Hayat Mirshad nel 2012, la piattaforma si distingue per un approccio dichiaratamente femminista. Obiettivo, spiegano da Tripoli in Libano le colleghe della rete, «opporsi apertamente al patriarcato, al colonialismo, alle narrazioni egemoniche e a ogni forma di occupazione — sia essa del corpo, della terra, della voce o dell’identità». Al centro della missione del network vi sono le esperienze vissute e i racconti in presa diretta, in netta contrapposizione alla tendenza del mondo arabo di silenziare ed emarginare le donne. Sotto la direzione della caporedattrice Hayat Mirshad, della coordinatrice della redazione araba Mariam Yaghi e della responsabile dei contenuti in inglese e traduzioni Hala Hajj, la piattaforma collabora con oltre 250 reporter e contributor provenienti dall’intera regione Mediorientale e del Nord Africa, documentando problematiche ignorate dai media tradizionali: dall’esposizione della violenza di genere e delle leggi discriminatorie, fino alla documentazione della resistenza quotidiana delle donne nei contesti di repressione e conflitto. Sharika Wa Laken produce contenuti multimediali esclusivi basati su un’analisi al femminile, promuove la diffusione di conoscenze accessibili e si batte per riforme legali e sociali proponendo di ripensare il giornalismo come strumento costruttivo di giustizia.

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