Saper fallire per ripartire: se l'impresa è questione di cuore
di
Davide Tizzo
La paura di non farcela può spingere all’immobilismo. Per i giovani che hanno partecipato a Orienta il futuro, l’esempio di chi ha saputo far tesoro anche degli errori di percorso

Successo e fallimento sono due facce della stessa medaglia. Con le quali ci misuriamo tutti: un brutto voto a scuola, una partita decisiva persa, una promozione sfumata... In una società che impone modelli vincenti, la paura di non farcela può spingere all’immobilismo, al non tentare nemmeno. Tanto più quando si tratta di creare dal nulla un’impresa, mettere a punto un progetto, finanziarlo, assumere persone e cercare clienti. A questo delicato tema è stato dedicato il terzo e ultimo appuntamento del PCTO «Orienta il futuro», un’iniziativa di Avvenire e L’economia civile, sostenuta da Eni scuola e realizzata con il contributo scientifico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e il supporto di ScuolAttiva onlus. Coinvolti centinaia di ragazzi degli ultimi tre anni di scuola secondaria. «Imprenditori si nasce o si diventa?» è stata la domanda che più spesso hanno posto i ragazzi, insieme a quella su come reagire ad un fallimento, con quali mezzi e strategie, per evitare di farsi travolgere.
Di ricette magiche non ce ne sono ma sicuramente serve passione: impensabile fare un’impresa su qualcosa che non piace, la costanza e l’impegno sono gli ingredienti da mettere sul tavolo. Claudio Erba, fondatore della piattaforma di elearning Docebo, creata nel 2005 e quotata alla borsa di Toronto, ha raccontato la sua esperienza come imprenditore. Partita appunto da una grande passione, mista ad un’enorme curiosità, per Internet. «A 23 anni ho registrato il mio primo dominio Internet – ha spiegato nel suo intervento – . Certo non è stato facile per arrivare ai primi risultati in termini di utili ci sono voluti anni». All’inizio è stato difficile trovare anche gli investitori, che infatti sono arrivati dall’estero, in particolare dal Canada dove la società si è poi quotata. L’avvento della pandemia, molti anni dopo, ha dato una spinta ulteriore ad una realtà che era ormai leader nel suo settore.
«I fallimenti, se non sono eclatanti ma sono solo errori di percorso, sono positivi, servono a riflettere e a capire la strada da intraprendere. In chiave collettiva possono servire da esempio per altri imprenditori, per capire cosa non si deve fare». L’importante è non farsi scoraggiare ma avere chiari i propri obiettivi, inseguire i propri sogni. Da un anno Erba ha lasciato la guida della sua creatura per fare il venture capita-list, vale a dire per investire in startup innovative. In diversi ambiti, tutti ad alto potenziale dall’ambiente, energia e in particolare la fusione nucleare, al macro-trend della longevity, vale a dire salute e assistenza per una popolazione che invecchia sempre di più.
«Ai ragazzi che vogliono fare gli imprenditori dico di «alzare le antenne» e coltivare la propria passione: il momento giusto arriverà. La paura di fallire non deve essere una scusa per non fare nulla, può essere uno sprone», ha detto ancora Erba. Tra le sue attività il sostegno tramite la AE Foundation agli «studenti divergenti», ragazzi che hanno brutti voti a scuola ma una grande passione, con borse di studio per l’università in materie Stem e Arte. Non tutte le imprese sono uguali, alcune accanto al profitto mettono al primo posto i bisogni delle persone, della comunità nella sua interezza e del territorio. Andrea Carlo Maria Sottini, assegnista di ricerca dell’Università Cattolica, ha parlato delle peculiarità delle imprese sociali (quelle registrate in Italia sono 17mila) e del fatto che affrontano un doppio rischio: quello di fallire finanziariamente e nella loro missione sociale. Sottini ha citato due esempi di successo: Mesica che realizza borse con i giubbotti salvagenti indossati dai migranti, quelli arancioni per intenderci, che finiscono dispersi sulle coste della Grecia e di altri Paesi del Mediterraneo, e PizzAut, la pizzeria gestita interamente da giovani con lo spettro autistico che è diventata un caso imprenditoriale e al momento ha due ristoranti a Cassina de’ Pecchi e a Monza.
«L’imprenditore sociale deve confrontarsi con una missione esterna, legata ai bisogni sociali, raggiungendo un gran numero di beneficiari, è possibile raggiungere livelli di impatto sociale positivo, e una missione interna strettamente connessa con la sostenibilità finanziaria, per realizzare economie di scala, ridurre i costi di produzione, aumentare i profitti reinvestiti nella missione sociale», spiega Sottini. Una condizione di equilibrio che può essere messa in crisi da eventi avversi (ad esempio la pandemia, un terremoto) e può indurre le imprese sociali a «dover» offrire più servizi e ad aumentarne l'accessibilità, a scapito della dimensione finanziaria.
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